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Private Equity: un punto di arrivo o un punto di partenza?

di Jody Vender | Senior Mentor Mentors4u

Jody Vender, Esperto di Finanza e Senior Mentor di Mentors4u, descrive l'attività e le caratteristiche del Private Equity e le competenze che, a suo parere, sono necessarie per fare una carriera di successo in questo settore. 

Se un giovane in gamba mi facesse questa domanda non avrei dubbi: un punto di arrivo.
Ma facciamo un passo indietro: l’attività di Private Equity, come è noto, consiste nell’investire in aziende non quotate ponendosi come obiettivo l’incremento di valore nel tempo e la monetizzazione dell’investimento (exit) in un tempo ragionevole (5-10 anni).
L’incremento di valore – che oggi, in un momento di tassi di interesse molto bassi, si aggira intorno a un 15% annuo – non può che realizzarsi attraverso uno sviluppo del business e conseguentemente della reddittività .  Un obiettivo così ambizioso ovviamente richiede che il business abbia del potenziale di crescita ma anche, anzi soprattutto, che l’azienda sia ben gestita.
Se il fondo di Private Equity in questione ha acquisito una minoranza per affiancarsi ad un valido imprenditore dovrà cercare di migliorare i risultati dell’azienda lasciando allo stesso imprenditore - socio di maggioranza - la gestione ma dandogli un valido supporto nel current business e in particolare  nelle decisioni di investimento e nelle operazioni straordinarie (cessioni e acquisizioni).
Nel caso poi che il fondo di Private Equity sia socio di maggioranza la responsabilità è ancora più forte e l’investitore, ancorché supportato da un valido management,  deve assumere un ruolo imprenditoriale vero e proprio. Questa esigenza di creare valore dal di dentro si è resa ancora più necessaria negli ultimi anni in Italia a causa dell’atteggiamento più prudente delle banche nel finanziare gli LBO (Leverage Buy Out, ovvero acquisizioni a leva), costringendo i Private Equity a puntare più sullo sviluppo della redditività del business che sulla riduzione del debito.
In conclusione il Private Equity non è mai un “passive” o un “silent” investor  ma un soggetto che oltre a portare dei capitali deve portare competenze e know-how gestionale.
Di conseguenza il team del Private Equity deve, a mio avviso, essere composto principalmente da persone che hanno una buona conoscenza delle tematiche di gestione maturata all’interno delle aziende o quanto meno in attività professionali che comportino una stretta vicinanza con le aziende.  Consiglierei pertanto a chi vuole fare una carriera nel Private Equity di farsi almeno 5-7 anni di esperienza in azienda – l’ideale nel settore pianificazione e/o controllo di gestione – o in attività come la consulenza di buon livello in campo strategico, organizzativo e operativo, ponendosi come obiettivo di essere pronto per il Private Equity intorno ai trent’anni, a mio parere non prima.
Ciò non significa ovviamente che un giovane di talento non possa eccellere nel Private Equity dopo avere lavorato in banca, nell’asset management o nella revisione contabile tuttavia, a mio parere, non è il percorso consigliabile.
Non dimentichiamoci infine che il Private Equity come tutti i “mestieri” è fatto da uomini e donne, e che quindi è molto importante la qualità delle persone più senior che compongono il team: anche i Private Equity più grandi sono organizzazioni relativamente piccole che in Europa vanno da un minimo di 5-6 persone addette agli investimenti a 15-20 nelle istituzioni più importanti.  Si lavora quindi a stretto gomito con persone senior o super senior e la loro “qualità” è essenziale per la crescita professionale delle giovani leve del Private Equity. 
E la prospettiva a medio lungo termine?   Il Private Equity è una attività svolta per la maggior parte dei casi da Fondi specializzati che per loro natura hanno una vita predefinita (normalmente 8-10 anni) e ciò ha delle implicazioni piuttosto importanti -  per certi versi anomale rispetto alle altre normali professioni - per le persone che fanno parte del team.  Infatti se un Fondo, dopo avere investito, cede le proprie partecipazioni avviando di fatto una liquidazione dell’attività del Fondo stesso, occorre lanciare un secondo Fondo per garantire continuità al team e poi, finito il secondo, un terzo e così via. Proprio recentemente ho conosciuto una management company che è al 16° Fondo, quasi un record di durata se si pensa che hanno iniziato a metà degli anni ’70; ciò significa che per molti anni  (in realtà decenni)  hanno ottenuto buoni risultati meritandosi la fiducia degli investitori tutte le volte che hanno lanciato un Fondo nuovo che andava a sostituire quello vecchio: ciò è possibile solo con un track record eccellente.
Un’ultima considerazione: un soggetto che abbia raggiunto una buona maturità professionale nel Private Equity non ha solo la possibilità di crescere nello stesso team nel quale si è formato  ma anche quella di mettersi in proprio lanciando una propria iniziativa, normalmente insieme ad altri  professionisti.  Questo è il traguardo finale per chi ha aspirazioni imprenditoriali.
Jody Vender
Esperto di Finanza e Senior Mentor Mentors4u

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