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La storia ed i consigli di Carlotta Siniscalco

di Federica Salvati | Team editoriale Mentors4u

Con questa intervista vogliamo raccontare la storia della Mentor Carlotta Siniscalco che ha fatto dell’internazionalità e delle diversità un obiettivo da perseguire durante tutta la sua vita. 

Quando hai sentito il bisogno di “esplorare” il mondo oltre Milano?
“Sin da bambina sono sempre stata curiosa di esplorare il mondo. Per questo, ho deciso di passare il quarto anno di liceo negli Stati Uniti. Ai tempi questa era una cosa abbastanza rara (nessuno dei miei amici o conoscenti aveva mai fatto un percorso simile) e infatti ricordo di essermi sentita molto impaurita prima della partenza. Alla fine però la voglia di esplorare ha avuto la meglio ed è così che ho passato dieci mesi in un piccolo paesino della Pennsylvania.”
 
Cosa hai imparato da questa esperienza all’estero?
“Per prima cosa ho imparato molto meglio l’inglese. Questo è stato fondamentale in tutti i passi successivi della mia vita. In secondo luogo, ho imparato a vivere ed arrangiarmi completamente da sola, sono partita bambina e sono tornata in Italia da adulta. Ma la cosa più importante in assoluto è stata scoprire che esisteva un intero mondo oltre la città in cui avevo sempre vissuto. Mi sono resa conto che nonostante pensassi di avere una mentalità aperta, il mio modo di pensare era molto “provinciale”. Questa è stata una realizzazione dolorosa ma necessaria. È come se, per la prima volta, mi fossi resa conto di quanto poco conoscessi del mondo. E grazie a questo, ho deciso di passare il resto della mia vita ad esplorarlo.”
 
Come è proseguito dopo il Liceo il tuo percorso di studi all’insegna dell’internazionalità?
“La voglia di scoprire il mondo mi ha spinto a fare application per iscrivermi all’università all’estero. Dopo varie ricerche (su Google) ho iniziato il processo di selezione per Wharton (a Philadelphia – in Pennsylvania). Rileggendo oggi la mia application noto che era piena di errori, ma fortunatamente Wharton ha visto del potenziale tra i miei strafalcioni grammaticali: essere stata ammessa è stata una grandissima fortuna.
Il primo periodo a Wharton è stato molto difficile: ero abituata a essere la “prima della classe” ed ora riuscivo a malapena a capire cosa dicevano i professori. Dopo qualche mese ho trovato il giusto ritmo, ho conosciuto nuovi amici di svariate nazionalità che mi aiutavano con l’inglese e che condividevano con me la voglia di esplorare nuove materie, nuove culture, nuovi posti del mondo. Essere circondata da studenti estremamente preparati, ambiziosi e umili mi ha permesso di crescere e maturare sia come studentessa che come persona.”
 
Hai svolto delle esperienze di stage mentre eri a Wharton?
“Le università americane sono estremamente orientate al mondo del lavoro: sin dal primo anno gli studenti vengono introdotti a tutte le opportunità lavorative a loro disponibili. Negli USA la pratica vale molto più della teoria (cosa molto diversa dall’Italia) e Wharton ci incoraggiava costantemente a provare stage di ogni genere con lo scopo di trovare la professione giusta per noi, spesso anche a scapito dei voti. La mia prima esperienza lavorativa è stata la classica summer internship in Investment Banking da Morgan Stanley. Ho imparato molto ma volevo provare altre esperienze prima di decidere la mia strada, e il settore degli investimenti mi aveva sempre incuriosito, in particolare il Venture Capital e il Private Equity. Avevo tre mesi obbligati da passare in Italia, e quindi ho deciso di provare a trovare uno stage in un fondo d’investimento nel mio paese.”
 
Come sei riuscita ad ottenere uno stage in venture capital?
“Negli Stati Uniti sarebbe stato semplice trovare uno stage di qualche mese in un fondo d’investimento. In Italia però, con un mercato molto più piccolo e meno abituato ad assumere giovani, mi sono presto accorta di quanto più difficile sarebbe stato trovare qualcuno disposto ad assumermi. Dopo i primi dolorosi “no”, ho deciso di adottare la tecnica “bombardamento a tappeto”: ho inviato la mia candidatura a tutte le 80 società presenti nel database di AiFi (Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital). Ho ricevuto solo due risposte positive, ma sono bastate. Grazie a questo approccio ho avuto l’opportunità di lavorare per un fondo di venture capital e di incontrare due mentor sui quali posso contare ancora oggi.”
 
Finita l’Università con quale spirito hai intrapreso la ricerca del lavoro?
“Ho iniziato il quarto e ultimo anno di Wharton avendo già completato tre stage a tempo pieno (Investment Banking, Venture Capital, oltre che ad un’altra estate passata ad insegnare matematica), e tre stage part-time. Grazie a queste esperienze, sapevo che Investment Banking era il percorso che volevo intraprendere dopo l'università. Per ottenere un posto nelle grandi banche, fare networking era assolutamente d’obbligo, e grazie a questo sono riuscita ad entrare da Goldman Sachs a New York. L’esperienza in Investment Banking è stata molto dura ma formativa.”
 
Come hai reagito quando ti sei accorta che l’Investment Banking non era il lavoro ideale per te?
“Fare due anni da analista in Investment Banking era il percorso obbligato per poi poter lavorare in un fondo di Private Equity. Sapevo dal primo giorno che non sarei stata da Goldman per più dei due anni “obbligatori”. Quindi, appena ho avuto l’opportunità, mi sono spostata in un fondo: ho deciso di lavorare da Advent, un grosso fondo americano con investimenti in tutto il mondo. Lì ho trovato persone che avevano a cuore la mia crescita professionale e grazie a questo ho passato tre anni molto gratificanti.”
 
Dopo 9 anni trascorsi tra Philadelphia e New York come hai dato una svolta alla tua carriera?
“Dopo 3 anni in Private Equity, era tornata in me la voglia di esplorare. Avevo già trascorso 9 anni tra Philadelphia e New York ed era ora di scoprire che aria tirasse in Silicon Valley, dove soffiava forte il vento della tecnologia e dell’innovazione. Quello che mi stava più stretto dell’East Coast era l’ambiente omogeneo che frequentavo: facevamo tutti finanza o consulenza, ed avevamo fatto tutti le stesse esperienze. Era difficile capire se davvero stessi facendo quello che desideravo fare o se semplicemente stessi seguendo i binari che mi erano stati messi davanti. Mi mancavano gli input esterni che mi dessero gli strumenti per valutare altre opzioni professionali. Era per me il momento di tirare fuori la testa dall’acqua.”
 
Quando hai deciso di iniziare l’MBA a Stanford?
“Una volta deciso di spostarmi in California, dovevo decidere se cercare un nuovo lavoro o iniziare il processo di application per l’MBA a Stanford (unica università dove avrei voluto studiare). Alla fine ho optato per l’MBA, spinta dal desiderio di passare due anni ad esplorare nuove idee e nuovi percorsi professionali. E proprio così è stato: ho passato due anni meravigliosi a conoscere nuove persone, appassionarmi a nuove materie, e scoprire un pezzo di mondo di cui per troppi anni avevo ignorato l’esistenza.”
 
...e dopo l’MBA? Come hai trovato il lavoro dei tuoi sogni?
“Tra il primo ed il secondo anno di Stanford ho svolto uno stage a San Francisco, in un’azienda di FinTech che mi ha appassionato molto e che mi ha offerto un posto full-time una volta finito l’MBA. Mentre stavo decidendo se accettare la loro offerta, ho conosciuto, quasi per caso, due partners di un fondo di Venture Capital che investe proprio nel settore del FinTech. Da subito mi sono resa conto che erano persone di un’intelligenza estrema, grande cuore e ottimo senso dell’umorismo. A Stanford mi era stata inculcata l’importanza di scegliere le persone con le quali lavorare, non tanto l’azienda, il titolo, o la paga. Ho deciso di seguire il consiglio di Stanford, e ho fatto di tutto per farmi assumere dai due partners. Ed è così che sono entrata da Ribbit Capital, poco dopo la fine del mio MBA.”
 
Dopo aver trascorso così tanti anni all’estero, quali sono secondo te le differenze tra l’ambiente universitario italiano e statunitense?
“La prima differenza è che in Italia i voti contano molto, invece negli Stati Uniti le esperienze di leadership, quelle extracurriculari e soprattutto le internships sono la cosa più importante. Un’altra differenza è il rapporto con i professori: negli Stati Uniti è normale, per esempio, che un professore vada a pranzo con uno studente, o che un professore diventi mentor di studenti volenterosi.”
 
E riguardo l’ambiente lavorativo?
“La differenza primaria tra le due culture è la responsabilità che viene data ai giovani. Negli Stati Uniti nessuno è discriminato per la giovane età ed in questo modo si cresce molto più in fretta. Inoltre l’età delle persone “at the top” è molto più bassa e c’è molto ricambio generazionale.
Un’altra differenza molto radicata è quella del valore del rischiare e fallire: negli Stati Uniti il fallimento viene celebrato, mentre in Italia fallire è una macchia indelebile di disonore, e questo purtroppo frena l’innovazione.
Un’ultima differenza è l’importanza del network: io stessa da giovanissima avevo un approccio molto ingenuo, temendo di infastidire le persone con telefonate o emails inopportune. Col tempo invece ho capito che quello del networking è un sistema molto potente, che si alimenta solo se si dimostra che davvero si vale qualcosa e soprattutto se si è vogliosi di aiutare il prossimo. Aiutando gli altri si crea un sistema di fiducia e rispetto reciproco: questo crea un circolo virtuoso molto simile al rapporto mentor- mentee che si crea in M4U.”
 
Quali consigli daresti ai Mentee che vorrebbero intraprendere una carriera internazionale almeno quanto la tua?
“Nel mondo di oggi non è più possibile accontentarsi di avere una visione “locale”. Non si può non sapere cosa succede fuori dal vostro confine, è necessario fare delle esperienze che stravolgano il vostro modo di pensare.
È essenziale capire che quello “italiano” è solo uno dei tanti modi di vivere, pensare e lavorare, non più giusto o sbagliato di quello francese, scandinavo, americano, russo, o arabo. Se io fossi una recruiter, non sceglierei mai di assumere persone che non hanno mai vissuto fuori da casa, almeno per un periodo. Fare nuove esperienze, specialmente quelle difficili o poco comode, partendo da zero, partendo dalla situazione in cui sei quello che ne sa meno di tutti, ti rende una persona migliore e un cittadino del mondo più consapevole. Perchè, come diceva il mio professore preferito a Wharton, “if you are the smartest person in the room, you are in the wrong room”.

 

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