I tre anni di Ingegneria Energetica sono stati piuttosto tecnici e molto analitici. Gli esami erano per lo più improntati sulle basi fisiche del funzionamento delle macchine: a parte il primo anno, dove i corsi sono piuttosto standard (non mancano analisi1, fisica, chimica e disegno tecnico), dal secondo anno ho visto da vicino corsi di termodinamica avanzata, meccanica dei sistemi complessi, meccanica dei fluidi e analisi computazionale, finché, al terzo anno, non ho potuto finalmente avere un assaggio delle materie che avrei approfondito durante la biennale in Nucleare.
Negli anni di specialistica, invece, ho avuto modo di arricchire il programma standard di Nucleare (che comprende fisica dei reattori a fissione, radioprotezione, impianti nucleari e molto altro) dando spazio alla mia passione per la fisica con materie quali fisica delle particelle, della materia, dei plasmi e degli acceleratori (quest’ultima tenuta presso l’Università Statale di Milano).
In generale, dato l’elevato livello di analisi e dimestichezza con formule anche abbastanza complesse richiesto dalla maggior parte delle materie, direi che avere interesse per le materie scientifiche (in particolare matematica e fisica) sia quantomeno necessario. In aggiunta, una buona dose di passione per il settore è sicuramente quello che serve per motivare durante il percorso di studio e non perdere di vista la meta.
Gli sbocchi lavorativi sono, al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare, molto diversificati, spaziando dal mondo della ricerca, dell’industria e persino della finanza. Per fare qualche esempio dalla mia classe, alcune delle uscite sono state: dottorato (sfociato in bandi per docenza) presso il PoliMi o altre università tecniche di primo rango in Europa; ricerca in ambito radioprotezionistico (Ispra Joint Center), impiantistico (ITER), fisico (CERN) e spaziale (ESA); posizioni in azienda in ambito di sicurezza e analisi di rischio, simulazioni computazionali, design di microsensoristica e laser; analisi di rischio di portafoglio per banche di investimento.
Quali sono i plus che un percorso di ingegneria dà rispetto ad altre facoltà da un punto di vista professionale?
Visto l’alto grado analitico delle materie trattate, gli studenti che escono da un percorso ingegneristico hanno generalmente spiccate capacità di analisi dei problemi, riuscendo ad applicare un approccio strutturato alla loro soluzione in ambiti anche molto diversi da quello da cui provengono. Sono capaci di andare molto a fondo e con facilità negli argomenti, grazie al metodo che hanno sviluppato durante i loro studi, aspetto che li rende particolarmente appetibili a lavorare in settori che non avrebbero mai considerato negli anni universitari. Un esempio sono le banche o le società di consulenza, nelle quali la percentuale di ingegneri è considerevole (e talvolta superiore) a quella dei laureati in economia.
Penso però che il vero plus di ingegneria sia la versatilità, ovvero il fatto che si tratti di una delle poche facoltà che permette ai suoi studenti di dedicarsi a conoscere ed approfondire un aspetto del mondo che li incuriosisce senza però legarli indissolubilmente a dover proseguire su quel percorso anche nella vita lavorativa, lasciando aperta la possibilità di scegliere come costruire il proprio futuro anche a molti anni dall’inizio degli studi.
Lo stereotipo vuole che gli studenti delle facoltà di ingegneria siano prevalentemente tutti uomini e che questi siano più bravi delle donne nelle materie scientifiche, ma finalmente soprattutto negli ultimi anni, stanno avendo sempre più spazio le ragazze che si occupano di STEM e i numeri nelle università relativi alle iscrizioni stanno cambiando. C’è a tuo parere un modo per disintegrare definitivamente lo stereotipo e fare in modo che più ragazze possano avvicinarsi a tale facoltà?
Non posso negare che nel mio corso la maggioranza maschile fosse schiacciante, con un rapporto 1:10 nella triennale e, talvolta, persino inferiore durante la specialistica.
Partecipando a diversi openday del PoliMi come ambasciatore di Ingegneria Nucleare ho notato, negli anni, sempre maggiore interesse per queste facoltà scientifiche da parte di ragazze, molte delle quali sembravano rincuorate dal parlare con una studentessa poco più matura di loro invece che col classico stereotipo di ingegnere uscito dalla serie Big Bang Theory.
Gli anni passano, e questo settore, come tanti altri, è e sta ancora cambiando velocemente: al Politecnico come in molte università, quello su cui si lavora è far fiorire e crescere il talento, in qualsiasi veste sia. Non c’è innovazione senza inclusione, e il PoliMi lo sa bene.
Nel mio percorso, non solo universitario ma anche di ricerca al CERN, sono sempre stata una delle poche se non l’unica ragazza e non è mai stato un problema. Volevo studiare Ingegneria Nucleare, volevo andare a lavorare al CERN e essere una ricercatrice; tutto quello che dovevo fare era impegnarmi per raggiungere i miei obiettivi e, in entrambi i casi, non ho mai percepito la differenza nell’essere ragazza.
Mentre, da un lato, credo che sarebbe sufficiente un po’ più di comunicazione su come questa evoluzione stia avvenendo, portando alla luce casi di successo di ragazze neolaureate e giovani professioniste (ce ne sono tantissimi!), dall’altro il consiglio che mi sento di dare a future ragazze STEM è: non abbiate paura, seguite la vostra passione con determinazione e impegnatevi per raggiungere i vostri obiettivi, i risultati non tarderanno ad arrivare.
Hai lavorato per quasi tre anni in McKinsey, una realtà molto ambita da chi desidera una carriera nel settore Consulenza: quali sono i consigli che ti senti di dare a chi vorrebbe approdarvi – sia per affrontare i colloqui, sia poi per un percorso lavorativo al suo interno –?
McKinsey è meta ambita per molti, neolaureati o giovani professionisti, che provengono da scuole di economia, ma anche da ambienti più tecnici come il mio.
Per me è stata (ed è tutt’ora) un’esperienza altamente formativa. Dopo il CERN, cercavo un luogo in cui convertire le capacità sviluppate in anni di studio ingegneristico e di ricerca in un’attività che mi aiutasse a crescere il più in fretta possibile, professionalmente e personalmente, dalla quale potessi imparare molto trovando sempre nuovi stimoli e attraverso cui, possibilmente, avere impatto.
Non solo ho trovato tutto questo, ma molto di più. Ho scoperto un luogo di opportunità, in cui si possono vedere settori, aree e clienti sempre diversi, in cui si lavora con colleghi in gamba e appassionati e dove non si smette mai di mettersi alla prova con nuove sfide.
Nessun percorso è uguale agli altri: si può viaggiare molto, sia in Italia che all’estero, o rimanere nella propria città (Milano o Roma), supportando clienti e industries sempre nuovi; ci si può specializzare in una practice specifica (e.g., operations, corporate finance) o rimanere generalista.
A chi volesse affrontare i colloqui consiglio naturalmente di esercitarsi a fondo, non sono sulla parte di business case, ma anche su quella personale, magari contattando qualcuno che già vi lavora per avere una visione dall’interno. Allo stesso tempo, consiglio di ricordandosi sempre di far trasparire la propria unicità: non si cercano profili standard, e le cosiddette risposte by-the-book non hanno niente di interessante (chi fa il colloquio le conosce sicuramente molto bene). Il punto non è uniformarsi a quello che si ritiene essere lo stereotipo del consulente, ma enfatizzare in che modo si è diversi e, per questo motivo, come si pensi di poter contribuire alla crescita della Firm, magari attraverso un approccio non convenzionale o idee innovative.
A chi invece stesse intraprendendo un percorso lavorativo in McKinsey direi di prepararsi, perché non mancheranno le sfide (soprattutto all’inizio), ma allo stesso tempo di non farsi abbattere dalle difficiltà e non avere timore di chiedere aiuto: scoprirete che tutti, a qualsiasi livello, saranno più che disponibili a darvi una mano.
Work - Life balance: come iniziare fin da giovanissima, durante gli studi ad ottimizzare il proprio tempo e trovare un equilibrio tra tutte le proprie attività?
All’inizio non è semplice, soprattutto se si è agli albori di una nuova esperienza, accademica o lavorativa: è necessario capire quali sono le attività davvero importanti e in grado di aiutarci a raggiungere l’equilibrio di cui tutti parlano per arrivare a fare di tutto per dedicarvi il tempo necessario.
Sembrerà una banalità, ma sin dal liceo, mi ha sempre aiutato tanto concentrarmi durante le lezioni, prendendo appunti chiari e ordinati così da non dover poi perdere tempo in rimesse in bella a fine giornata o a ristudiare tutto da capo prima di un esame, come se stessi vedendo quei concetti per la prima volta. Scrivere era come imprimere i concetti nella memoria, approccio che ho portato prima all’università e, poi, nel mondo del lavoro.
Di hobby negli anni ne ho avuti parecchi, ma solo col tempo ho imparato a capire cosa davvero mi appagasse dopo una giornata o una settimana di duro lavoro.
Per quanto possa assorbire un progetto o un particolare esame, penso sia importante mantenere sempre un contatto con la realtà che abbiamo sempre vissuto, una valvola di sfogo personale. Per molti potrebbe essere continuare a giocare a calcio o a pallavolo; per me, non essendo mai stata particolarmente sportiva, si è piuttosto trattato di reinvestire ogni momento libero guadagnato in uscite con amici, viaggi, mostre e libri.
Servirà dunque una buona organizzazione ma, con un po’ di pratica, è sempre possibile conciliare i due mondi, anche nei momenti più difficili.