Sul tema dell’adattamento la parola d’ordine è sicuramente “apertura”, che nel mio modo di vedere si traduce nell’osservare e comprendere il nuovo che si ha di fronte ma anche nell’accettare di smussare e rivedere dei lati del proprio carattere. Quando si incontra una nuova cultura, è naturale che si attivino dei meccanismi di resistenza. Capita a tutti, è fisiologico. La vera differenza la fa il come si risponde a questa resistenza, quindi il grado di apertura.
Il lato umano e professionale si mixano: aprirsi significa avere capacità di interpretare la persona che si ha di fronte e, di conseguenza, anche saperla leggere da un punto di vista lavorativo.
Quello che ti lascia un’esperienza all’estero lo vedi poi a 360° sulla tua vita, specialmente a lavoro dove sei chiamato spesso a collaborare con persone differenti, a cambiare approccio, a calarti in situazioni complesse. L’esperienza all’estero agisce proprio sulla capacità mentale di abbattere qualsiasi resistenza, amplificando la naturalezza con cui ti adatti e ti cali in qualsiasi contesto ti trovi di fronte.
Quanto appena detto è quanto ho messo in pratica nelle esperienze che ho fatto in Sud America, dove appunto il contesto sociale e i rapporti lavorativi sono molto differenti da ciò a cui siamo abituati in Europa.
Andare all’estero per me ha significato amplificare qualcosa che era latente: all’università non ho fatto l’Erasmus, cosa di cui mi pento, ma poi in ambito lavorativo sono riuscito a crearmi le opportunità per fare questo tipo di esperienza e da quel momento in poi il “rapportarmi con l’estero” non l’ho più lasciato. Ad oggi, infatti, lavoro come FP&A con un perimetro di responsabilità che coinvolge l’America, tutta l’Asia e più di qualche paese europeo.
Generali, per cui lavori, è un leader del settore assicurativo: quali sono le diverse practice che mette a disposizione la tua azienda?
Generali è un’azienda estremamente all’avanguardia su più fronti, da temi legati al cliente come il Claims Journey a quelli più strettamente legati all’attività lavorativa, come ad esempio lo smartworking. Generali è stata fra le prime aziende italiane ad andare in go-live con lo smartworking, dando la possibilità ai dipendenti di lavorare fino a un max di 2gg a settimana da casa. La risposta di tutta l’organizzazione, a tutti i livelli, è stata ottima e difatti nel momento in cui è iniziata l’emergenza Covid-19, l’azienda ha esteso immediatamente la possibilità di adottare lo smartworking per tutta la settimana, con risultati veramente notevoli.
Un altro tema interessante è quanto Generali riesca a rendere possibile quella che a me piace chiamare con il nome di carriera “verticale e orizzontale”: l’azienda ha talmente tante anime ed è così geograficamente estesa che un giovane talento può trovare numerosi percorsi di carriera, sia verticalmente (promozioni, avanzamenti, etc.) che orizzontalmente, ovvero cambiando funzione, area, paese, etc. L’organizzazione crede nell’importanza di questa doppia direzione e i meccanismi interni incentivano la rotazione dei giovani talenti.
Quali sono le skill che servono per affermarsi quale financial planning & analysis manager come sei tu?
Dopo quasi 8 anni di esperienza lavorativa posso affermare con certezza che le 3 skills più importanti sono la comprensione strategica del business, la capacità di negoziazione e l’autonomia.
Avere strategic acumen impone il dover “sapere di tutto un po'”: l’FP&A è il braccio destro del CFO e pertanto ad una conoscenza finanziaria deve necessariamente affiancare anche la capacità di capire le dinamiche relative ad altre aree, come Operations, Actuarial e Distribution.
La capacità di negoziazione non va intesa in senso “commerciale”, quanto piuttosto nella capacità di fare da “elastico” fra i differenti stakeholders con cui ci si interfaccia, che vanno dai CFOs/CEOs di country al top management di Head Office. Per me negoziare significa mediare, capire come trovare un compromesso, mettere insieme più parti/attori al fine di arrivare all’obiettivo comune.
Infine l’autonomia: essere autonomo vuol dire riuscire a comprendere il problema e risolverlo senza necessità di input, vuol dire combinare capacità di analisi e di sintesi, vuol dire essere il braccio destro del CFO sui numeri, vuol dire essere in grado di prendere delle informazioni grezze e renderle come si dice in gergo “executive”.
Per quale motivo sei diventato un Mentor di Mentors4u? Cosa ti ha spinto a entrare a far parte del nostro progetto?
Il motivo è molto semplice: vengo da un’università pubblica e so bene che il percorso che vuoi intraprendere te lo devi creare da solo. E questo comporta non tanto (non solo) lavorare sulla conoscenza, quanto sull’approccio. E su questo punto credo fortemente nel potere che le persone “esperte” possano esercitare verso coloro che sono studenti o professionisti alle prime armi. Per questo sono entrato a far parte del progetto Mentors4U.
E poi a me è sempre piaciuto mettermi a disposizione per aiutare le persone: durante l’ultimo anno accademico ero convinto di voler fare un dottorato così da diventare professore universitario…10 mesi dopo ero un intern in EY! Chissà cosa mi aspetterà nel prossimo futuro!
Qual è il consiglio che credi possa valere per tutti gli studenti che si approcciano oggi nel mondo del lavoro?
Non è uno ma sono tre!
Il primo è legato al tema teoria vs pratica: in Italia siamo forti come preparazione teorica, ma alleniamo poco l’approccio pratico. Fin dall’università è necessario lavorare sull’atteggiamento, sul sacrificio e sul capire che ognuno di noi è sempre parte di un ingranaggio più complesso.
Il secondo è di fare un’esperienza all’estero: io non ho fatto l’Erasmus (sbagliando), ma poi in ambito professionale mi sono creato le opportunità per fare progetti all’estero, cosa fondamentale oggigiorno per qualsiasi tipo di carriera. E poi l’inglese, non serve neanche ricordarlo, è conditio sine qua non.
Il terzo è il senso di responsabilità e la velocità con cui ci si cala/adatta nei differenti contesti: il lavoro è completamente diverso dall’università. All’università hai la scadenza dell’esame, ti puoi preparare e puoi quindi controllare molte delle variabili in gioco. Se fai male prendi un voto basso, ma hai effetti solo su te stesso. A lavoro il paradigma cambia drasticamente: non tutto si pianifica e non tutto dipende da te. Inoltre il tuo output molto spesso costituisce l’input per qualcun altro, e dalla qualità del tuo lavoro dipende il successo di una riunione, di un progetto, del tuo capo. Il senso di responsabilità e la velocità con cui si “leggono” le situazioni che ti circondano sono fattori cruciali sin dal primo giorno di lavoro.